IN EVIDENZA

CORONAVIRUS | Il virus si chiama Covid-19, ecco perchè

Coronavirus o Covid-19? Guida ai termini usati per descrivere l’emergenza sanitaria. Un po’ di chiarezza sui termini usati per descriver...


mercoledì 1 giugno 2016

GENOVA - Petrolio Iplom, 46 giorni dopo la valle ferita e l'eredità della marea nera

Sono passati 46 giorni. Era la sera del 17 aprile quando dalla condotta dell'Iplom uscirono 680 mila litri di greggio. Attraverso due rivi, il Pianego e Fegino, passando in mezzo a case e campi, arrivarono al Polcevera, poi fino al mare, soffocando pesci e uccelli. Quella macchia nera ora non c'è più, ma sfuma in un colore, il grigio, che non tranquillizza e che fa capire come l'emergenza non sia finita. Pur brutti e viscidi, i cefali che galleggiavano morti in quei giorni sul tappeto di petrolio, sono ricomparsi alla foce del torrente. Migliaia. Un segnale che viene interpretato come rassicurante perché la natura si sta riprendendo lentamente ciò che le era stato tolto.

Almeno sembra così. Perché quello che si vede è solo la superficie, ma quello che c'è sotto, assorbito dalla terra, è ancora un mistero. «Sono stati fatti i primi carotaggi – interviene l'assessore alla Protezione civile Gianni Crivello –, i risultati devono ancora arrivare. Quello che si può vedere, però, è che è stato fatto un gran lavoro».


In via Borzoli c'è un gran via vai di mezzi. Il rio Pianego sbuca davanti alla farmacia San Martino e sporgendosi dalla ringhiera si vede scorrere acqua limpida. Un'illusione, perché basta cambiare prospettiva e sono ancora evidenti le iridescenze, macchie di idrocarburi sfuggite ai filtri delle otto dighe presidiate dagli uomini della Iplom. Il greto è a macchie di leopardo, tra i sassi sono rimaste chiazze marroni. È il petrolio. Quando salita Pianego si fa più ripida e ci si avvicina a "Ground Zero", il punto in cui si è rotta la condotta, appena superate le vasche di contenimento, ecco che il pietrisco che si trova sulle spiagge di Genova, lascia il posto al fango. Di quel colore grigio che, appunto, non fa sta ancora tranquilli. Una massa densa, immobile, su cui l'acqua scorre, in un movimento che pare una fuga verso il mare. Tutto intorno, il verde della campagna e tante cose che non tornano. Le galline che chiocciano e il rumore delle ruspe. Le piantine di fragoline e il petrolio. Le vecchie case con i tetti di ardesia e i depositi. Il Pianego e, ora, un rio morto, senza vegetazione. Accostamenti arditi.

Le gru sui camion afferrano gli enormi sacchi bianchi con la terra contaminata. «Sono state portate via finora 4700 tonnellate, più 5550 di acqua mista a petrolio», precisa Crivello. Nella strada che man mano che si sale si fa sempre più stretta, passa una piccola Daihatsu. Meglio scostarsi. L'occhio cade su un sentiero con una ringhiera di legno. «A sinistra, a sinistra...». La voce arriva da sotto. Ci sono uomini con tute bianche, guanti e mascherine che lavorano accanto a una ruspa. Alzi la testa per capire cosa c'è intorno e si materializza l'immagine della
 sera del 17 aprile. La collina è crollata, dalla parete spunta un pezzo della tubazione da cui è stato sparato il greggio per venti minuti: 680 mila litri. Il vento fa il suo giro. L'odore di petrolio di quella notte si sente ancora, pizzica la gola. Lo respiri e rimane per ore. «I lavori per l'emergenza sono ancora in corso, quelli per la bonifica non sappiamo quando inizieranno», ammette l'assessore alla Protezione civile.

0 commenti:

Posta un commento